I BRIGANTI DELLA BANDA POMPONIO
In seguito all’Unità d’Italia, l’economia del Sud subì un progressivo impoverimento. Contadini e braccianti che prima vivevano dignitosamente, si ritrovarono sotto un nuovo e insostenibile regime fiscale. Anche l’istituzione della leva obbligatoria per un Regno nel quale nessuno si riconosceva, contribuì alla nascita del brigantaggio post-unitario, con contadini e pastori organizzati in bande armate come forma di protesta.
Dal 1861 al 1870 le valli del Treste e del Trigno furono teatro di saccheggi, sequestri e delitti ad opera della famigerata Banda Pomponio, capeggiata da Giuseppe Pomponio di Liscia insieme al suo fedele braccio destro Intino di Furci. Per nove anni la Banda seminò il terrore impunemente, grazie alla capacità di nascondersi nei boschi e nelle grotte.
Molte infatti sono le località che ancora oggi ricordano i briganti e attorno alle quali sono fiorite leggende popolari su tesori nascosti e mai recuperati. Nel bosco Le Fratte di Furci esiste una grotta nota come la “Tana dei Banditi” dalla quale pare fosse possibile fuggire, attraverso un cunicolo sotterraneo, fino alla chiesa di S. Sabino di Furci.
La storia della Banda Pomponio si concluse nel 1870, quando Giuseppe Pomponio venne trovato in una masseria di Furci dai carabinieri guidati dal brigadiere Bergia. I suoi compagni vennero uccisi mentre tentavano di fuggire mentre Giuseppe, in seguito alle ferite riportate durante lo scontro a fuoco, morì pochi giorni dopo a Furci nei pressi della fonte che da allora porta il suo nome.
LA DEVOZIONE E IL SANTUARIO DI SAN MICHELE ARCANGELO
A 2,5 km dal borgo di Liscia, lungo il fianco del colle che scende ripido nella Valle del Treste, è collocato l’Eremo di San Michele Arcangelo, antico luogo di culto le cui origini si perdono nel tempo.
Ogni visitatore, fedele o laico che sia, subisce il fascino di questo luogo misterioso, dove le energie spirituali e naturali parlano la stessa lingua.
Dalla piccola chiesa rupestre costruita nel XVII secolo addossata ad una parete rocciosa, si accede alla sacra grotta, in cui l’incessante stillicidio ha generato formazioni calcaree di superba bellezza. E’ questo il luogo di culto che gli abitanti di Liscia e di tutto il territorio considerano sacro da tempo immemore.
Un’antica leggenda racconta di un pastore che, incuriosito da un torello che si allontanava ogni giorno dal pascolo, decise di seguirlo e, con suo grande stupore, lo
vide inginocchiarsi dinanzi ad una grotta, nella quale comparve l’Arcangelo Michele che combatteva contro Lucifero. Colto da fortissima emozione, il pastore svenne e al suo risveglio sentì la gola arsa da una gran sete, che poté alleviare grazie all’acqua che miracolosamente iniziò a sgorgare dalla roccia e alla quale da allora vengono attribuite proprietà taumaturgiche.La devozione popolare per S. Michele si manifesta l’8 maggio di ogni anno, quando due processioni provenienti da Liscia e da San Buono si incontrano all’Eremo, dove i pellegrini, dopo la messa, raccolgono la santa acqua.
MUBEN – Museo Padre Beniamino
Le antiche sale del Castello Marchesale di Palmoli, dal 1978, ospitano il Museo della Civiltà Contadina intitolato a Padre Beniamino.
Di sala in sala, il visitatore si cala nella vita del borgo degli ultimi secoli, grazie ad ambienti accuratamente ricostruiti con oggetti originali che raccontano una piccola grande storia.
Il lavoro è il protagonista indiscusso, con utensili che rievocano i lavori fondamentali per la sussistenza delle famiglie, come la produzione di cereali, di vino e di tessuti al telaio. Presenti anche i lavori artigianali come quelli del falegname, del sarto e del calzolaio.
Minuziosa è la ricostruzione della casa, con gli arredi e gli oggetti di uso quotidiano. Di particolare interesse è la presenza della “pila”, sorta di grosso mortaio utilizzato per triturare il peperone rosso essiccato, ingrediente principe nella realizzazione della famosa Ventricina del Vastese.
Altri spazi sono dedicati ai luoghi pubblici, come il cinema, aperto a Palmoli nella prima
metà del Novecento, di cui si conservano tre preziosi proiettori, e alle feste paesane, sacre e profane, inaugurate, oggi come ieri, dalla banda musicale.
La visita si conclude sulla splendida torre medievale, osservatorio privilegiato su un vasto panorama che si estende dall’Adriatico ai monti del Matese e della Majella.
IL CONVENTO DI SANT’ANTONIO
A circa due chilometri dall’abitato di San Buono, immerso nei boschi di querce, è ubicato il Convento di Sant’Antonio da Padova.
Quando Giovannantonio II, primo principe di San Buono, avviò l’edificazione del Convento, ultimata dal figlio Marino IV entro il 1625, aveva già destinato di donarlo all’Ordine dei Frati Minori Osservanti.
All’epoca esistevano già, sul territorio, diversi conventi francescani, come S. Maria del Monte Carmelo di Palmoli, caratterizzati tutti da un’estrema semplicità architettonica, nel rispetto dei princìpi pauperistici su cui era fondato l’Ordine.
Per via della sua prestigiosa committenza, il Convento di Sant’Antonio si distingue per l’accuratezza dell’esecuzione e la ricercatezza dei dettagli. La facciata dell’edificio chiesastico presenta, infatti, un andamento leggermente convesso e ricche decorazioni marmoree che la rendono inusualmente preziosa. L’aspetto attuale del complesso conventuale è il risultato di un primo intervento di ammodernamento in stile barocco
risalente al Settecento, e a due successivi restauri avvenuti negli anni ’50 e ’80, che hanno in parte alterato le caratteristiche originarie.
Il valore storico-artistico del Convento di Sant’Antonio è accresciuto dal contesto naturalistico, che ne fanno una piacevole meta dove trascorrere qualche ora a contatto con la natura.
FONTANE, LAVATOI ED ABBEVERATOI
Ogni borgo della Valle del Treste presenta alcune caratteristiche ricorrenti.
Ognuno di questi grappoli di case è costruito attorno alla chiesa parrocchiale, generalmente ubicata nel punto più alto del borgo, con la torre campanaria svettante in luogo di più antiche fortificazioni spesso perdute.
In ognuno di questi piccoli nuclei urbani c’è una piazza centrale, luogo di ritrovo e conversazione, ma anche il luogo delle celebrazioni più importanti. Ed ognuno di questi borghi possiede almeno una fontana, portatrice di acqua e di vita.
Nessun centro abitato sarebbe mai stato costruito dove non fosse stata presente almeno una sorgente d’acqua, molte delle quali investite di sacralità da tempo immemore.
Quando il territorio era popolato dalle genti italiche, prima dell’ascesa di Roma, alle fonti era associato il culto di Ercole, divinità legata al mondo pastorale. E la pastorizia è stata per millenni la risorsa principale per la gente di queste terre.
La distanza tra i fontanili e gli abbeveratoi scandiva l’incedere delle greggi condotte dai pastori lungo i tratturi, mentre le donne si recavano quotidianamente al lavatoio del paese per lavare i panni e chiacchierare con le comari. Il suono dell’acqua si mescolava al vociare delle donne e al tintinnio dei loro orecchini, le sciacquajje, gioiello tradizionale abruzzese indossato da tutte le donne, il cui nome viene proprio dal termine “sciacquare”.
Per molti secoli fino agli anni ’50, era alla fontana del paese che si andava quotidianamente per rifornirsi di acqua potabile e, quando vennero realizzati gli acquedotti, nella piazza centrale di ogni borgo venne costruita una fontana monumentale per celebrare l’acqua e la sua funzione sociale di elemento aggregante.
Alla mera funzione pratica della fontana venne aggiunto anche un valore estetico, conferendole forme architettoniche diverse con fregi e decorazioni di varia foggia. Così le fontane furono anche manifesto del gusto estetico del periodo nel quale vennero realizzate. Se nel Medioevo venivano preferite fontane in pietra a vasca circolare o poligonale con colonna centrale, nel Rinascimento vennero realizzate molte fontane in bronzo laddove erano presenti committenze facoltose e maestranze in grado di realizzarle.
Nella bassa Valle del Treste sono meritevoli di menzione per le loro caratteristiche storiche e architettoniche, la Fonte delle Coste a Palmoli e la Fontana Vecchia di San Buono
LE MURA SARACENE: TRA STORIA E LEGGENDA
Lungo il versante nord-occidentale della Valle del Treste, una serie di rilievi collinari si inerpicano rapidamente dal letto del fiume fino al borgo di Furci.
Su uno di essi, il Colle Moro, i resti di antiche strutture murarie testimoniano la presenza di un edificio andato distrutto nel corso dei secoli.
La gente del posto conosce questi ruderi col nome di Mura Saracene, poiché ad esse si lega una suggestiva leggenda. Pare che le mura appartenessero ad un antico convento, nel quale la vita monastica si svolgeva da secoli nella quiete e nella preghiera,
fino a quando il territorio non fu devastato da orde di Saraceni che saccheggiavano e depredavano tutti i luoghi abitati in cui si imbattevano.
Secondo la leggenda, il convento venne incendiato e distrutto proprio dai Saraceni durante una delle loro scorribande che aveva il saccheggio di Furci come obiettivo. Quindi, dopo l’attacco al convento,i Saraceni si diressero verso il borgo, ma all’improvviso una fitta nebbia calò dalla cima della collina a celare completamente il paese e la strada per raggiungerlo. Contemporaneamente, dal convento ormai distrutto, si levò il cupo suono delle campane che mai avrebbero potuto suonare, poiché il campanile era crollato e i monaci erano stati barbaramente uccisi.
Fu troppo anche per i temibili Saraceni, che decisero di tornare indietro rinunciando al saccheggio del paese.
Quanto di vero ci sia in questa leggenda non potremo mai sapere, ma il toponimo Colle del Moro potrebbe rappresentare una conferma dell’attacco saraceno.
La Valle del Treste, come tutto il territorio abruzzese e molisano, subì nei secoli passati, ripetute incursioni da parte di coloro che venivano genericamente chiamati Saraceni, ma che erano più propriamente corsari e predoni provenienti dall’Africa del Nord.
Le principali ondate predatorie da parte dei Saraceni furono quelle dei secoli IX-X e del XVI secolo.
Ben noto è il caso del devastante attacco saraceno all’abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno nell’881. Era una delle abbazie benedettine più potenti e ricche allora esistenti, eppure niente poterono i monaci per difendersi dalla furia sanguinaria dei Saraceni.
Così come inarrestabili furono le incursioni del XVI secolo su tutta la costa adriatica. Il 1566 fu infatti l’annus horribilis per le città costiere di Ortona, Vasto e Termoli, ma, attraverso le valli fluviali, i pirati turchi, condotti dal temibile Pialy Pascià, riuscirono a penetrare sin nelle aree interne, senza risparmiare nulla.